Il sabato del villaggio reloaded

“Il sabato del villaggio” è l’unica poesia di Giacomo Leopardi che tutti sappiamo a
memoria, e che ben ricordiamo per averla studiata da bambini. I rimanenti canti ,
per non dire le prose, erano ritenuti difficili e demandati agli studi superiori, dove
meglio si armonizzavano con le prime tristezze e e delusioni, e mentre i professori
spiegavano il suo pessimismo e ateismo, nell’intenerimento ormonale della classe
il povero Leopardi, cosi grande lirico e filosofo, diventava una specie di cugino
maggiore un po’ sfigato un po’ nerd. Alle elementari invece, forse la morale, “Godi
fanciullo mio…” era ritenuta educativa e opportuna quando la scuola preparava,
o almeno tentava, di prepararci a una vita austera e ricca di prove, perché
saggiamente ci avvertiva che l’attesa del divertimento vale più del suo
conseguimento. Saggezza elementare appunto, confermata da certe domeniche
in famiglia. Mi accorgo ora che sto parlando di una scuola e di un tipo di famiglia
alquanto datati, ma come si comportino oggi gli insegnanti della scuola
arcobaleno, non lo so e non mi curo di saperlo. Forse danno del testo una lettura
edonistica New age, del tipo “cogli l’attimo “, ovviamente “fuggente.? Non mi
stupirebbe,
I quadretti di vita paesana di cui si compone il Sabato sono paragonati alla pittura
fiamminga, che non c’entra niente, mentre io ci vedo già i macchiaioli ma
soprattutto la tecnica cinematografica nella sequenza delle inquadrature. E
quanto alla musicalità del verseggiare, con le sue lievi dissonanze e armonie
imitative, c’è più Puccini che Rossini. E siamo nel 1829! Romantico o classico
Leopardi? Bel tema per la maturità classica di una volta. Presumo di averlo anche
svolto ma oggi che direi? La filosofia e il lessico forbito sono puro settecento
italiano, ma il resto, la poesia, è al di là dello stile romantico. È quel classicismo
intimista che chiude l’ottocento europeo e scavalca la fin de siecle. Baudelaire,
Verlaine, von Hoffmanstahl, Rilke….Tutti innamorati della luna e dello stile
impeccabile; nevrotici sublimi, malati della propria ricerca del senso della vita
oltre le parvenze delle cose…un’ ansia o forse Angst, di cui vivevano, e di cui
morivano.

Bisogna crescere e invecchiare per capire la bellezza e l’illuminazione contenuta in
questa apparentemente semplice poesia.. Ci vogliono centinaia di domeniche ,
prima con famiglia e poi senza famiglia, per fare nostra la sua carica di nostalgia.
Ma se ripetendo a noi stessi i versi leopardiani consideriamo la nostra società
tanto mutata rispetto ai suoi tempi, e ancor più avida e insoddisfatta, ci
accorgiamo che Leopardi da poeta ha fatto opera di sociologo ante litteram.
Promettiamo che la società di Recanati, come quella delle Marche pontificio, era
ancora agricola e patriarcale, e peraltro ignara della rivoluzione industriale. La
società si fondava su poche famiglie nobili tra cui la casata Leopardi, impoverite
dalle guerre napoleoniche, che con grande sprezzo del sacrificio, e talvolta del
ridicolo, si ingegnavano a mantenere le apparenze del passato decoro.
Aggiungiamo la loro servitù, clientes e famigli, qualche artigiano, molti operai
generici, allora si chianavano “opere”, che lavoravano a giornata nelle terre dei
signori..Un milieu sinceramente cattolico e benpensante, spontaneamente un po’
reazionario, che Leopardi come sappiamo detestava, senza peraltro rinnegarlo
mai in cuor suo. Cornice perfetta, il dolce paesaggio marchigiano un po’ mesto,
senza eccessi eclatanti di luce e colore, né ricco, né povero, anzi a quel tempo
più povero che ricco.
Il primo personaggio che entra in scena, ché di scena si tratta, è la “donzelletta”.
Questa giovane creatura, che intuiamo graziosa e financo sexy, è tutta definita
dall’epiteto. Non pastorella o contadinella, e nemmeno giovinetta o giovanetta,
tutte forme accreditate in letteratura, ma donzella, in latino dominicella, piccola
signora, in francese demoiselle, mademoiselle. Dobbiamo pensare che questa
ragazza di paese facesse parte a sé fra le coetanee per una sua propria grazia o
per un particolare impulso ad elevarsi, lavorando a giornata in attesa di un
avvenire migliore. Per questo torna prima degli altri “col suo fascio dell’erbe” che
rappresenta il suo guadagno quotidiano, e il famoso mazzolino di fiori. Qui
Leopardi è preciso. Il fascio di erbe, da vendere come foraggio per le bestie, sarà
portato in un paniere sul braccio o sul capo, non interessa, ma il mazzolino è
recato in mano, con quanta cura il verso ben lo dice.

Commovente davvero la delicatezza con cui la ragazza tratta il modesto bouquet
con cui ornerà l’indomani il suo vestito della festa. La festa consiste per lei nel
ballo, che è una cara abitudine (“siccome suole”). Per comprendere l’importanza
di queste minuzie, non dobbiamo pensare alle serate in discoteca di oggi.
Nell’ottocento in verità si ballava moltissimo, ma senza trasgressione e sotto gli
occhi delle famiglie. Si ballava nelle sale patrizie, nei salotti borghesi, nelle stanze
dei circoli ( il cosiddetto circolo della nobiltà non mancava nemmeno nei piccoli
paesi). Nelle feste il popolo ballava in piazza e d’estate anche sull’aia. Il moto
rapido del salterello metteva in risalto il seno e i capelli delle ragazze, che per
ornarli avevano solo la risorsa dei fiori di campo. I ragazzi Leopardi guardavano
tutto ciò con malcelata amarezza. Sappiamo che i genitori erano contrari al ballo e
agli svaghi in genere e comunque non avrebbero permesso ai figli di mescolarsi
alla gioventù del luogo. Mettiamo meglio a fuoco la scena.
La visuale del Sabato, è stato verificato, è l’esatta fotografia di quella che si
godeva dal palazzo Leopardi,. Il palazzo affacciava sulla piazza, ora chiamata
Piazza del Sabato del villaggio, avendo a fianco una chiesa, da cui il suon dell’ore,
e di fronte una casa bassa, dove ai tempi abitava Fattorini, il cocchiere di casa, con
la famiglia, la moglie e due figlie, che si dedicavano a tessere, e una di loro era
Teresa, morta giovane di tisi e cantata come Silvia; a fianco, la bottega del
legnaiolo, che incontreremo dopo. Possiamo immaginare Giacomo Leopardi
intento a rimirare “d’in sui veroni del paterno ostello” non solo la povera Silvia
ma nel nostro caso gli svaghi festivi a cui non partecipava. Accanto a lui, spesso, il
fratello Carlo, molto sensibile al fascino femminile, e la sorella, la povera Paolina
destinata allo zitellaggio: i fratelli preferiti, che dividevano con lui il male di vivere
ma non il talento.
Con la seconda inquadratura ci si presenta un secondo personaggio femminile: la
vecchiarella, seduta sulle scale di casa, in compagnia delle vicine, sfruttando gli
ultimi raggi del sole cadente per il suo lavoto di filatura. Normalmente si dà a
questa figura una valenza metaforica. È il contrario della donzelletta, o forse lo
specchio del possibile futuro di quest’ultima. Con fine psicologia, Leopardi
riproduce il suo commento al passaggio della bella fanciulla. Anche lei, ai suoi
tempi, si adornava per il ballo, ecc. Dalla finestra di casa Leopardi si sarà

veramente sentito il discorso o il poeta ben conosceva il tipo umano? Non
sappiamo, però siamo portati a credere che la “vecchiarella” non fosse una dolce
creatura, ma una di quelle matrone di paese che non tollerano la giovinezza e la
grazia nelle nuove generazioni. Vediamo un attimo la sua situazione lavorativa.
Siede sulle scale con le vicine e parla liberamente, non è dunque una domestica, e
presumibilmente lavora in casa propria, per sé o su commissione.
È una “donzelletta” che ce l’ha fatta ce ora si gode il suo status di piccolissima
borghese, il suo quotidiano modesto e faticoso, che compensa con l’ingenua
vanità. Quanta ironia mette Leopardi quando scrive : “e novellando va del suo
buon tempo…” e riproduce il suo lessico un po’ trito: “sana e snella … l’età più
bella”…
Indulgente con se stessa, la vecchiarella sarebbe la prima a lanciare i suoi strali
sulla donzelletta al primo passo falso.
In questo senso Recanati, che per Leopardi è il luogo del sogno inappagato, della
memoria ritrovata e dell’impossibile ritorno della speranza, è anche imparentata
con le tante cittadine di provincia che costellano la letteratura europea, quelle
che Stendhal, Balzac, Jane Austen e Cechov indicano con nomi di fantasia o con
due o tre asterischi: microcosmi crudeli dove succede di tutto e e sotto gli occhi di
tutti, a cui ci si affeziona tanto. E anche il lettore ci si appassiona.

Sabato due

Dopo le due scene illuminate dagli ultimi raggi del sole calante, abbiamo un
rapido stacco e un cambio di atmosfera. La sera è scesa, “torna azzurro il sereno
e tornan l’ombre giù da’ colli e da’ tetti al biancheggiar della recente luna”. (Che
colorista Leopardi! Dove mai aveva visto un paesaggio serale fatto a rapide
pennellate che solo molti anni dopo i Macchiaioli avrebbero osato riprodurre?)
Nella quiete repentina che succede al trambusto del rientro dai campi echeggia la
squilla della sera, che dà conforto. A chi? Non certo agli abitanti del paese che
sanamente si sono già scrollati di dosso i pensieri e le preoccupazioni materiali,
ma al poeta medesimo, secondo un cliché foscoliano. Ricordate il sonetto “Alla
sera”, del 1803, targato romantico doc e per noi un po’ convenzionale? Ma
Leopardi è molto più fine di Ugo Foscolo. In lui non “rugge” nessuno “spirito
guerrier”, ma si limita a ipotizzare (“diresti” ) che il suo cuore timidamente “si
riconforta”. È noto ormai che per tutti i depressi, come Leopardi, la sera comporta
una ripresa di tono, un allentarsi dell’angoscia e questo verso ne è un esempio
perfetto. Ce ne sono molti altri nei Canti, di accenni al potere rilassante delle
campane della sera, come nelle Ricordanze, ma questo è giustamente il più noto
e bello.
In questo nuovo stato d’animo gli giungono all’orecchio come un’eco i giochi serali
dei ragazzini del paese, che sfogano in piazzetta le energie represse, forse dopo
essersi liberati dei compiti scolastici o della lezione di catechismo. Sappiamo che
Giacomo Leopardi era stato un ragazzino vivace e anche grazioso, prima che la
malferma salute (dovuta a qualche malattia genetica aggravata dallo studio e
dalla mancanza di sano movimento) lo riducesse a un invalido vagamente ridicolo.
Certo i giochi infantili dei piccoli Leopardi si saranno svolti in casa, senza contatti
con i bimbi del paese, quindi i loro fratelli minori si saranno vendicati in seguito su
di lui adulto, prendendolo in giro con scherzi volgari quando lo incontravano, ma
nella dolcezza della sera nulla affiora di questa reciproca antipatia, in cui al
bullismo si mescola l’odio di classe. Solo si nota una vaga tenerezza, che si
effonderà nell’epilogo. Per il momento ne siamo ancora lontani. Mancano due

episodi,due personaggi, questa volta due uomini: lo anzi “il zappatore” (errore da
matita blu che solo Leopardi si poteva permettere a motivo della metrica) e “il
legnaiuolo”.
Nel buio, senza timore, rientra questo anonimo lavoratore, che immaginiamo
giovane e robusto. Rientra “fischiando” dopo aver lavorato a giornata,
piacevolmente stanco e affamato per la fatica puramente muscolare che ha
durato. Leopardi non ci dice se ha una famiglia propria, ma ci fa capire che la
prospettiva della cena, modesta ovviamente, e del riposo domenicale, gli bastano
per una felicità puramente istintiva e fisica. Lo zappatore non è consapevole di
essere sfruttato o sottopagato, non rivendica diritti. È un puro. I suoi discendenti
avranno di più, ma sentiranno la mancanza di molto di più.
Consegnato questo onesto lavoratore al suo riposo, incontriamo, nel rosseggiare
di una finestra illuminata, e questa sì, potrebbe essere una scenetta fiamminga,
l’ultimo personaggio del Sabato, a mio parere, il più interessante. Del legnaiuolo
conosciamo il nome, Giuseppe Marchetti, un classico cognome del centro Italia:
possiamo immaginarlo più attempato dello zappatore, perché è uno che lavora ( e
rischia) in proprio. A differenza degli altri, si preoccupa perché non ha finito il
lavoro e sa che se non lo finisce non sarà pagato. Dobbiamo pensare che il
legnaiuolo abbia molte ordinazioni, e che in questo caso abbia anticipato il costo
del materiale. Poiché non è pensabile che potesse consegnare il manufatto la
mattina della domenica, il pagamento a consegna non poteva avvenire prima del
lunedì successivo. L’artigiano è preoccupato e decide di sacrificare una notte di
buon sonno, perché nelle Marche pontificie, dove il Papa è Re, non si lavora la
domenica. Accende la lucerna, un’altra piccola spesa non da poco, per l’epoca, e si
impegna nel lavoro. Il legnaiuolo è l’unico tra i personaggi del Sabato, che sembra
amare il proprio lavoro, che sa organizzarsi, pianificare un futuro. È un
imprenditore di sé stesso, che oggi sarebbe una Partita IVA, o perfino il titolare di
una PMI, ovvero uno di quei cittadini attivi che hanno creato il benessere delle
regioni come le Marche, da sempre lodati dai politici ma taglieggiati dal governo.
Onore dunque a tutti i Giuseppe Marchetti dal 1829 ad oggi.

Di Giacomo Leopardi dovremmo aggiungere che pur cercando disperatamente un
impiego, non riuscì mai ad ottenerlo, e quando gli si prospettò una cattedra in
Prussia, vi rinunciò per timore del clima e…della lontananza dalla famiglia. Ma era
Giacomo Leopardi.
Fortunato il paese dove le tasse dei Marchetti fanno vivere un Giacomo Leopardi.

Sabato tre

La narrazione del Sabato si era sviluppata finora con una serie di scenette sul
tema idilliaco del Ritorno dai campi ( che ha una tradizione propria nella pittura
da Rubens in poi, che forse andrebbe indagata se non altro per capire se Leopardi
ne avesse qualche memoria visiva magari subliminale).
Ora il fuoco è sul Poeta, mesta silhouette scura sul balcone in penombra, che ci
spiega perché non è possibile agli umani esser felici. È una sentenza lapidaria:
“Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia. Diman tristezza
e noia recheran l’ore ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno.”
Questa è la morale del Sabato, Leopardi da buon regista avrebbe potuto darle il
giusto nome, cioè la gnome.
La breve strofa è tanto famosa e citata che mette soggezione il solo pensiero di
spiegarla ancora. Direi solo che si regge su quattro parole chiave del lessico
leopardiano, speme e gioia, tristezza e noia,sono come quattro punti cardinali che
hanno al centro la condizione umana, lo scandalo sociologico è che tale
sofferenza che oggi chiameremmo alienazione viene attribuita alla sensibilità di
personaggi tanto umili. Ma non per un pregiudizio ideologico: Leopardi non è
populista. La sua è una forma assai nobile di pietas stoica. La sofferenza alienante
è data dalla ripetitività del lavoro, il travaglio usato, come ripetitivo è il pensiero
che lo preannuncia, La sera del giorno festivo risveglia la preoccupazione; la
stanchezza ci assale in anticipo quando siamo saturi di ozio e di riposo, ma
consapevoli di non aver ottenuto nessun bene durevole. Solo, come direbbe
Pascal, del divertimento.
A questo punto la poesia potrebbe concludersi.
La vera chiusa, altrettanto famosa ma assai meno elevata come qualità poetica, è
quasi un envoi, cioè secondo un antico uso trobadorico, una dedica a un
“Garzoncello scherzoso…” . Ci sembra riflettere un ultimo mutamento d’umore,
quasi che il poeta volesse addolcire la pillola amara ai lettori più giovani. Ci si è

chiesto se Leopardi si rivolgesse ai ragazzi che giocavano in piazzetta o a un
ipotetico giovinetto. Si potrebbe pensare anche che il vero destinatario di questo
monito fatto tra il serio e il faceto potrebbe essere lo studente tipo degli anni a
venire, quando Leopardi sarebbe diventato uno dei classici da studiare e mandare
a memoria? Forse un ragazzo del 1929 e perfino di oggi?
Quante volte abbiamo sentito da qualche parente sentenzioso: “non t’incresca
l’aspettare, ecc.” Le nuove generazioni sembrerebbero meno rassegnate di noi
alla pazienza e all’attesa, ma sono abbastanza spregiudicate da credere nella
quasi inevitabilità della delusione.Nondimeno vogliono “tutto e subito”,
contrariamente alla morale del Sabato.
La poesia qui è finita. Vediamo il poeta che chiude gli scuri e non sapremo mai se
nella penombra abbia accennato un sorriso, il suo celebre sorriso dolce e
spirituale che secondo gli amici era il suo unico charme.
Mandiamo a dormire anche i garzoncelli scherzoso, a cui tutto sommato nessuna
morale pessimistica toglierà il piacere di attendere le feste della vita, e proviamo
a immaginare il lunedì dei nostri personaggi. I ragazzi saranno tornati a scuola, la
terribilmente severa scuola di allora, lo zappatore e la donzelletta ai loro lavori, la
vecchiarella alla parte più ingrata dei mestieri di casa. Il lunedi per tradizione era il
giorno del bucato, che lei avrà allevato con l’esercizio del pettegolezzo sul ballo
della sera prima. Il legnaiuolo sarà tornato ad occuparsi e preoccuparsi della
propria bottega.
Ci piacerebbe pensare che almeno la donzelletta abbia incontrato l’uomo del suo
cuore, ma più probabilmente per Lei l’alternativa al matrimonio ragionevole era lo
zitellaggio, perché per le oneste Cenerentole del 1829 l’ascensore sociale era
fermo. Poi c’era la tisi, sempre in agguato, perché epidemica. Così svanirono
Silvia (Teresa Fattorini), e Nerina delle Ricordanze (Maria Berardinelli), ma anche
principesse, intellettuali e cortigiane. Chissà se la nostra donzelletta si sarà stretta
nello scialle, il lunedì, e avrà attribuito i primi malesseri al freddo preso al ballo?
Qui ogni ipotesi è buona. Certo è che quasi certamente non sarà stata mai più
felice come quel famoso sabato sera.

Marisha Paulay

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